Tanti anni fa, nella baraccopoli di Kivuli, ho incontrato una bimba di nome Teresa, e abbiamo stretto amicizia. Tempo dopo mi ha scritto una letterina, e un passaggio mi commuove: “… I really appreciate the way you have been to me … well guess what! I little present for you. It is a picture I drew during my art class project. And now it yours. Hope your happy and going on with life”. Sembra un niente, ma è una cosa importante: racconta l’urgenza del nostro fare arte per comunicare oltre le parole, altro dalle parole, un desiderio che diventa spinta a vivere la fatica di avvicinarla, questa arte.
Nel trascorrere del mio tempo mi sono data tempi lunghi per assistere ai primi segni tracciati dai miei figli, seguire le evoluzioni delle loro linee. Per osservare una corteccia, per passare il dito sui rilievi delle radici, cercare le fogie e riempirci le tasche di sassolini, guardare il cielo e il riverbero della luce al tramonto, ripetendo ogni volta, guarda che meraviglia. Si è confermato il senso di questa continua osservazione: mantenere lo stupore che ciclicamente consente una nuova visione, ed è maturata la consapevolezza di quanto sia arricchente poter condividere quanto ho imparato di questo processo.
Dai bimbi più piccoli arrivano spontanei il gesto, la sintesi, il simbolo. È questa attitudine innata che cerco di tenere viva nei corsi di arte: seguo i bambini, i ragazzi, gli adulti, nelle idee che portano e che vogliono sviluppare, nei passaggi critici o nella sperimentazione di nuove strade, invitandoli a mantenere una connessione con la loro “prima voce”. Si ruba ai grandi Maestri, per capire come hanno risolto un problema, come hanno potuto tradurre proprio quella cosa che si vorrebbe tirar fuori. E ci si spinge fuori, all’aria, nei rumori, e odori, nella luce che cambia, a tradurre vita su un foglio, imparando a fidarsi di uno schizzo impreciso, per poi riprenderlo in studio con cura e una diversa attenzione.